Lo sport è l’arma più utile che abbiamo per cambiare il mondo

“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Di ispirare, di unire le persone in una maniera che pochi di noi possono fare. Parla ai giovani in un linguaggio che loro capiscono. Lo sport ha il potere di creare speranza dove c’è disperazione. È più potente dei governi nel rompere le barriere razziali, è capace di ridere in faccia a tutte le discriminazioni. Gli eroi che sono vicini a me sono un esempio di questo potere. Sono valorosi non solo in campo, ma anche nelle loro comunità, locali ed internazionali. Sono campioni, e meritano di essere mondialmente riconosciuti come tali. La loro eredità sarà quella di lasciare un mondo dove le regole del gioco sono uguali per tutti, e il comportamento è guidato dal fair play e dalla grande sportività”.

Queste furono le parole di Nelson Mandela – l’uomo della ribellione dell’Apartheid sudafricana – proclamate agli inizi del nuovo secolo per il progetto della Laureus Sport For Good Foundation. Lo scopo era quello di salvare centinaia di bambini dalla droga e dalle gang criminali con un parco da Skateboard. Perché? Il motivo risiedeva nel suo credo assoluto nello sport, nella sua missione di aggregazione, di fratellanza e comprensione.

DA MANDELA AL DEGRADO PIU’ TOTALE

Lo sport è certamente una leva emotiva comune alla maggioranza delle persone e un grande uomo come “Madiba” lo aveva capito. Egli operò un significativo cambiamento. Identificare lo sport non più con i giocatori, ma con la maglia che indossavano e lo Stato che rappresentavano. Mandela prese sulle spalle questa sfida e la vinse con il suo Sudafrica. L’uomo che cambiò la storia, il quale, tra i vari suoi pregi, aveva quindi quello di conoscere bene l’uomo nel profondo. Probabilmente la prigionia aveva permesso a quest’uomo di conoscere nel profondo se stesso e di guardare con attenzione gli altri per comprendere le dinamiche intrinseche ad ogni uomo. La cruda realtà della società odierna, invece, ci sbatte in faccia una verità cruda e cocente. Lo sport non solo ci costringe ad assistere gli attoniti cori razzisti – in segno di disprezzo e disuguaglianza – oggi il simbolo dello sport si correla in maniera ripugnante all’esultanza su un campo di calcio. Il saluto militare che si pone a mo’ di schiavismo dinanzi ad una telecamera, il richiamo al becero regime in barba ai bombardamenti che dilaniano famiglie e mutilano bambini. Questo è davvero inaccettabile. Un nazionalismo insulso che tradisce lo spirito di questo sport. L’ apologia al fascismo è un reato, altresì il lasciar passare l’oppressione di un popolo per un’operazione di pace.

IL MITO DI JESSIE OWENS

Il potere trainante di questa disciplina è basata sull’integrazione, ma soprattutto nel diffondere la cultura del rispetto e della convivenza fra persone provenienti da etnie diverse. Lo recita il CONI, il comitato olimpico, il quale, fu il teatro del pregevole riscatto dell’uomo dalle persecuzioni inflitte dalla tirannia dell’odio. Il trionfo di Jessie Owens alle Olimpiadi non è da attribuirsi unicamente alle 4 medaglie conquistate sul territorio berlinese, bensì per l’amicizia che lo legò a Luz Long, l’atleta tedesco per cui Adolf Hitler stravedeva e su cui la Germania contava per la vittoria nella gara del salto in lungo. Nel lasso di tempo che precedette la gara, furono gettate le basi di quella che fu una sincera amicizia tra l’atleta americano e il tedesco Long. Owens sbagliò i primi due dei tre salti di qualificazione. Prima del terzo salto fu proprio Luz Long, che conosceva bene la pedana, a suggerire a Owens di anticipare la battuta consentendogli di superare la misura di qualifica. Dopo la conquista della medaglia d’oro di Owens, Long fu primo a congratularsi. Gli anni che succedettero furono quelli della guerra, ma tra i due protagonisti di questa storia nacque un’amicizia indelebile. La lontananza la rese possibile solo in forma epistolare perché Long divenne in seguito un ufficiale dell’esercito del terzo Reich. Quando ricevette notizia della moglie la quale diede alla luce suo figlio scrisse ad Owens la sua ultima lettera. Un atto d’amore, in onore della loro amicizia. Il sentore del suo suo triste destino lo indusse a strappare una solenne promessa all’amico di origini ebree: quella di conoscere il figlio e fargli sapere quanto sia importante l’amicizia è di come essa sia possibile nonostante gli orrori e le divisioni che la guerra comporta. Il tragico epilogo di Luz Long finirà su un campo di battaglia, ma Jesse Owens tenne fede alla promessa data all’amico tedesco.