Appunti di viaggio in Sardegna. Da Caprera a Sant’Antioco il passo [non è] é breve. Considerazioni del nostro inviato, il critico d’arte Mino Iorio

Mino Iorio: “Vedete in queste ore mi trovo ancora in Sardegna e mai come quest’anno ho deciso di anticipare il mio arrivo sull’Isola per inziare un viaggio da sud e non rimanere per tutto il tempo nei soliti luoghi. Si, per intenderci quei posti da copertina famosi nel mondo.
Risalendo ho toccato diverse località come Capoterra, Sant’Antioco, Carbonia, Villasimíus, Cabras, San Giovanni di Sinis, Orosei, Dorgali, Cala Gonone, Porto Cervo e in sintesi, la Sardegna è un’isola meravigliosa da Capo Teulada a Santa Teresa di Gallura ma c’è chi in passato ha deciso – questo ovviamente mettendoci i soldi – che una parte, soprattutto “Olbia e dintorni”, doveva avere una vocazione esclusivamente turistica e mantenere intatto il suo patrimonio naturalistico e costiero mentre altre aree, soprattutto localizzate nel sud dell’Isola, dovevano avere una destinazione varia se non specificamente industriale.
Questo anche a costo di violentare natura e territorio. Ovviamente tutto ciò non è un fatto recente ma una propensione antichissima e una ventina di giorni fa me ne sono occupato direttamente visitando il museo Ferruccio Barreca di Sant’Antioco con gli scavi della città fenicia di Sulky – fra l’altro un antico scalo marittimo fondamentale proprio in relazione alla “questione metallifera” e le frequentazioni micenee dell’età del Bronzo medio e tardo nel golfo di Napoli – e le cave estrattive della regione del Sulcis-Iglesiente fino alla fondazione di Carbonia ad opera di Mussolini in persona per incentivare l’industria estrattiva del carbone.
Oggi, però, se guardiamo all’intero territorio – come in tante aree della penisola italiana – scopriamo che le industrie di trasformazione delle materie prime hanno lasciato sui territori solo miseria e desertificazione mentre altre attività – e non solo il turismo – laddove si é scelto d’introdurle, a partire dagli anni Sessanta, hanno reso e rendono il territorio più ricco e produttivo.
Il popolo sardo tutto questo lo ha capito e Michela Murgia ce ne da un piccolo scorcio “…Cabras era una cittadina di novemila anime, un numero di tutto rispetto considerando la media sotto i tremila dei paesi vicini. Pur vivendo su un’economia semplice, basata più che altro sulla produzione di cibo da consumare sul posto, poteva vantare un certo elementare benessere e il blasone storico di essere stata la destinazione di Eleonora d’Arborea, che sulle sue rive si diceva avesse edificato addirittura un castello. Di quell’antico fulgore però negli anni Ottanta non restava traccia: contadini, pescatori e qualche sporadico pastore costituivano i due terzi della sua forza lavoro; chi avesse una cartoleria era già considerato benestante, e i pochi impiegati e liberi professionisti – con il loro titolo di studio – formavano spontaneamente la classe dirigente.
Rispetto alla campagna dove abitava Maurizio la rustica vita paesana appariva come un brulicare di attività accattivanti e frenetiche. C’era sempre qualcosa da fare, da vedere o da esplorare. Le rive dello stagno su cui Cabras basava la gran parte della sua vita sociale erano i confini di un’isola selvaggia nelle cui acque basse si sognava naufrago e temerario. Con i ragazzi del paese da giugno a settembre passava gran parte del tempo nei pressi delle pescherie, in attesa che venissero gettate via le vecchie cassette di polistirolo con cui avrebbero realizzato rudimentali zattere per le battaglie navali sullo stagno.…” (da M.M., L’incontro,Torino Einaudi, 2012)
E dopo di ciò guardiamo un attimo al Continente e riflettiamo.
Ovviamente questo non vorrebbe dire che dobbiamo “puntare tutto” nel settore turistico e/o ambientale a vario livello. Fra l’altro va da se che, ad esempio, nel caso dell’Area Metropolitana di a Napoli questa disamina “dal punto di vista caleidoscopico sardo” innesca un confronto che non sarebbe neanche corretto, perché altri popoli, altre usanze, altre culture.
Ed é tutto abbastanza ovvio, direi.
Ma almeno due cose mi sembrano inoppugnabili:
Ricostruire la cultura di un territorio é un atto fondamentale che permette di mettere i popoli di quel territorio davanti alla loro identità e alla loro appartenenza
un territorio per definizione non può avere “la vocazione” di essere “per tradizione lo sversatoio” illegale di rifiuti di un paese o “il luogo d’elezione” dei roghi tossici.
Che dire del resto del Continente?
Fate un po’ voi ma considerate che un’attenta lettura di Michela Murgia (e che Dio l’abbia in gloria) potrebbe aiutarvi”.