Lo hanno trovato cadavere con diverse ferite sul corpo, provocate da un’arma da taglio. Giallo sulla morte di un italiano, Carmine Mario Paciolla, collaboratore delle Nazioni Unite nel dipartimento meridionale colombiano di Caquetà. L’uomo è deceduto ieri in circostanze non del tutto chiare. Per il colonnello Oscar Lamprea, comandante della polizia dipartimentale, che ha parlato con l’Ansa, Paciolla potrebbe essersi suicidato. L’ufficiale ha precisato che il cadavere di Paciolla è stato rinvenuto nella sua abitazione a San Vicente del Caguán con segni di lacerazione ai polsi.
Lamprea non ha voluto pronunciarsi sulle cause del decesso, limitandosi a precisare che la Procura ha aperto un’indagine per determinarle. Da parte sua la missione dell’Onu in Colombia si è «rammaricata profondamente» per la morte di Paciolla, inviando le sue condoglianze alla famiglia e confermando di avere aperto una sua indagine interna in collaborazione con la Procura per determinare l’accaduto.
Ma secondo alcune media locali Paciolla che aveva 33 anni e viveva nel quartiere Villa Ferro della città nota per essere stata negli anni ’90 la sede di falliti negoziati di pace fra le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) ed il presidente Andrés Pastrana, presentava varie ferite da taglio. Giorni fa, indica il sito, l’italiano aveva accompagnato il governatore di Caquetà, Arnulfo Gasca, e il sindaco di San Vicente, Julian Perdomo, in differenti luoghi di dialogo e accordo con le comunità rurali dove si facilitavano processi di pace. Da parte sua Radio Caracol indica che Paciolla faceva parte dell’equipe di verifica degli accordi di pace dell’Onu in Colombia.
I genitori di Mario e i suoi due fratelli, che vivono tutti a Napoli, annunciano un esposto alle autorità giudiziarie italiane per chiedere la massima chiarezza negli accertamenti sulla morte del 33enne. Parole simili, i familiari di Paciello le usano in un’altra intervista a Repubblica: «Ce lo hanno ammazzato, era troppo agitato e arrabbiato negli ultimi giorni. Deve aver visto o capito qualcosa, durante il suo lavoro, che lo ha messo in pericolo. Un giovane italiano non può morire così. Ci ha chiamato una avvocatessa dell’Onu, poi l’ambasciatore italiano a Bogotà: sono sinceramente dispiaciuti, lo so, ma noi vogliamo la verità».
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