Il calcio non ha voce, non ne ha bisogno

Il calcio non ha voce, non ha bisogno di farlo.
Il calcio entusiasma, socializza.
Il calcio è passione, è agonismo, è adrenalina, è un’idea di libertà, di evasione.
L’emozione che lascia trapelare si sposa con le nostre appartenenze. Non parla, ma si esprime a chiare lettere. Si immedesima nei nostri ideali e detta i nostri tempi.
Subiamo il suo fascino e le sue conseguenze, è irruente e sprigiona i cuori di tutti noi.
Il calcio non ha voce ma suscita premura, un legame indissolubile che ci travolge per quanto ci si convinca del contrario.
Per quanto ci si convinca di essere al di sopra delle parti e di non restarne coinvolti .
Per quanto la ragione e l’imparzialità vogliano prevalere è il sentimento a presentarci il conto, e con questi saremo soli nel confrontarci. A poco serve munirci di orgoglio e mostrare gli artigli alle nostre personali platee, perché amare questo sport è sinonimo di lealtà, soprattutto verso noi stessi. Il calcio non ha voce ma ci appassiona e vincola la nostra indole ad una sensibilità che vorremmo tante volte sopprimere.

Non ha voce, certo, ma non ha nemmeno classi di appartenenza, razze, né tanto meno orientamenti politici. Non comporta limiti, non ti inibisce, è sinonimo d’integrazione e non pone barriere al suo seguito. Il razzismo perde coralità dinanzi a chi riesce a preservare l’etica di questo sport. Chi ancora mantiene salda la sua ancora di salvezza, e riversa il suo credo nella sacralità del pluralismo, riuscirà ancora a dissociarsi da questa raccapricciante discriminazione. Lo sport è uguaglianza e aggregazione, non si identifica con chi si lascia sopraffare dall’impulsività del momento, bensì con chi ancora riesce a divulgare il verbo della democratica libertà d’opinione. Il calcio non ha voce ma ha una notevole intelligenza: alla veemenza del Gladiatore preferisce l’avvento del fiero Cavaliere Bianco.

Una dote che lo distingue e lo rende umano.